SAPORI DI SICILIA A MILANO DA VUCCIRIA
SAPORI DI SICILIA A MILANO DA VUCCIRIAAssaggi
La Sicilia al nord è possibile? Da siculo purosangue, guardo con circospezione a rosticcerie e bar che propongono cibaglie della mia regione a Milano.
I pochi posti siciliani perlustrati finora mi hanno lasciato nera insoddisfazione a fronte di consigli di entusiasti amici nordici che garantivano con tanto di lucciconi negli occhi che lì i cannoli sono proprio come quelli che ho mangiato in Sicilia. A volte mi domando se non siano atterrati a Malta per sbaglio.
Spesso la qualità proposta è bassa, lo stesso non posso dire però dei prezzi, che mantengono la costante meneghina del mai-sotto-i-3-euro-a-pezzo.
È quindi con un’abbondante dose di diffidenza che entro da A’ Vucciria, che ha aperto a fine gennaio affacciato sulla Darsena sventolando fiero il motto “old sicily & new food”. Ma se per “new food” si vuol giustificare la presenza dei panzerotti, che da noi in Trinacria sono un po’ diversi e si chiamano Calzoni, suggerirei di editare lo slogan con un “old sicilian & licenza poetica”. O giù di lì.
Il locale è piccolo, si mangia in piedi, il grande bancone mostra un un esercito di “pezzi” in bella mostra.
Alle spalle delle commesse, la parete simula uno scorcio della Vucciria di Palermo con una saracinesca aperta e dei muri finto-fatiscenti. C’è anche la musica tipica siciliana in diffusione per non minare l’alto coefficiente di folclore.
Ci sono i dolci, gli immancabili cannoli e cassatine, intravedo anche delle “minne di Sant’Agata” ma tutto ciò non mi interessa, voglio sfondarmi di salato, preferibilmente fritto e unto in linea con i miei piani di autodistruzione a breve termine.
I prezzi sono ben lungi dall’essere Siciliani: i panini costano 5 €, le arancine (qui nella variante linguistica femminile) sono a 3 € cadauna. Non sto qui a dire che tipo di guai passerebbe un esercente con questi prezzi in qualunque zona dell’isola.
Ci sono arancine al ragù, al prosciutto, anche vegetariane. Ordino un panino con panelle, un “pane ca’ meusa” e un’arancina al ragù ma, pallottoliere alla mano, la somma fa 13 euro: si paga in contanti, io in tasca ho solo 10 €, così rinuncio alle panelle e mi tengo stretti gli altri due pilastri della pancreatite.
La milza ribolle nel pentolone con lo strutto, me la faccio “maritare” con del caciocavallo a scaglie, prendo il malloppo e scendo sulla riva della Darsena per dare un tocco di sturm und drang solitario alla prova d’assaggio.
Attacco proprio col pane ca’ meusa, che oltre alla milza contiene anche trachea e polmone come richiede la ricetta originale. Il pane ha la crosta croccante ed è morbido, con una timida costellazione di semi di sesamo ad animarne la superficie. La carne si scioglie in bocca, è tenerissima e saporita e la sapidità è perfetta, tenendo conto che il caciocavallo concorre ad alzarne il livello. Forse c’è una punta di succo di limone di troppo, ma va bene perché sgrassa il bolo. Lo divoro e m’insozzo la barba così ricorro alla manica del cappotto per de-ungermi perché non m’hanno dato i tovaglioli.
Passo all’arancina senza concedermi respiro, ho già la tachicardia. Anch’essa madida d’olio ma non molle, la frittura infatti è perfetta e “crocca”. Il riso non è scotto, il che non è poi così scontato (neanche in Sicilia) ed è insaporito con una leggera punta di zafferano. E il ragù? È molto denso (il che è corretto) e un po’ dolciastro (il che mi piace), il trito è finissimo e ci sono i piselli. Non indimenticabile ma si difende bene. Però manca il formaggio e qui potrei sollevare una solenne obiezione, ma chiudo un occhio anche perché l’uso non è obbligatorio. Vi siete salvati.
Posso quindi affermare che A’ Vucciria tiene alto il proprio nome e che m’ha fatto godere abbastanza, soprattutto il pane ca’meusa. Certo, se ordini le stesse cose a Palermo e porgi 8 €, coi soldi che avanzano ti fanno anche la convenzione dal gastroenterologo, ma siamo a Milano, c’è poco da questionare.
Ora m’attende una digestione ai confini del lisergico, ma questa è un’altra storia.
I pochi posti siciliani perlustrati finora mi hanno lasciato nera insoddisfazione a fronte di consigli di entusiasti amici nordici che garantivano con tanto di lucciconi negli occhi che lì i cannoli sono proprio come quelli che ho mangiato in Sicilia. A volte mi domando se non siano atterrati a Malta per sbaglio.
Spesso la qualità proposta è bassa, lo stesso non posso dire però dei prezzi, che mantengono la costante meneghina del mai-sotto-i-3-euro-a-pezzo.
È quindi con un’abbondante dose di diffidenza che entro da A’ Vucciria, che ha aperto a fine gennaio affacciato sulla Darsena sventolando fiero il motto “old sicily & new food”. Ma se per “new food” si vuol giustificare la presenza dei panzerotti, che da noi in Trinacria sono un po’ diversi e si chiamano Calzoni, suggerirei di editare lo slogan con un “old sicilian & licenza poetica”. O giù di lì.
Il locale è piccolo, si mangia in piedi, il grande bancone mostra un un esercito di “pezzi” in bella mostra.
Alle spalle delle commesse, la parete simula uno scorcio della Vucciria di Palermo con una saracinesca aperta e dei muri finto-fatiscenti. C’è anche la musica tipica siciliana in diffusione per non minare l’alto coefficiente di folclore.
Ci sono i dolci, gli immancabili cannoli e cassatine, intravedo anche delle “minne di Sant’Agata” ma tutto ciò non mi interessa, voglio sfondarmi di salato, preferibilmente fritto e unto in linea con i miei piani di autodistruzione a breve termine.
I prezzi sono ben lungi dall’essere Siciliani: i panini costano 5 €, le arancine (qui nella variante linguistica femminile) sono a 3 € cadauna. Non sto qui a dire che tipo di guai passerebbe un esercente con questi prezzi in qualunque zona dell’isola.
Ci sono arancine al ragù, al prosciutto, anche vegetariane. Ordino un panino con panelle, un “pane ca’ meusa” e un’arancina al ragù ma, pallottoliere alla mano, la somma fa 13 euro: si paga in contanti, io in tasca ho solo 10 €, così rinuncio alle panelle e mi tengo stretti gli altri due pilastri della pancreatite.
La milza ribolle nel pentolone con lo strutto, me la faccio “maritare” con del caciocavallo a scaglie, prendo il malloppo e scendo sulla riva della Darsena per dare un tocco di sturm und drang solitario alla prova d’assaggio.
Attacco proprio col pane ca’ meusa, che oltre alla milza contiene anche trachea e polmone come richiede la ricetta originale. Il pane ha la crosta croccante ed è morbido, con una timida costellazione di semi di sesamo ad animarne la superficie. La carne si scioglie in bocca, è tenerissima e saporita e la sapidità è perfetta, tenendo conto che il caciocavallo concorre ad alzarne il livello. Forse c’è una punta di succo di limone di troppo, ma va bene perché sgrassa il bolo. Lo divoro e m’insozzo la barba così ricorro alla manica del cappotto per de-ungermi perché non m’hanno dato i tovaglioli.
Passo all’arancina senza concedermi respiro, ho già la tachicardia. Anch’essa madida d’olio ma non molle, la frittura infatti è perfetta e “crocca”. Il riso non è scotto, il che non è poi così scontato (neanche in Sicilia) ed è insaporito con una leggera punta di zafferano. E il ragù? È molto denso (il che è corretto) e un po’ dolciastro (il che mi piace), il trito è finissimo e ci sono i piselli. Non indimenticabile ma si difende bene. Però manca il formaggio e qui potrei sollevare una solenne obiezione, ma chiudo un occhio anche perché l’uso non è obbligatorio. Vi siete salvati.
Posso quindi affermare che A’ Vucciria tiene alto il proprio nome e che m’ha fatto godere abbastanza, soprattutto il pane ca’meusa. Certo, se ordini le stesse cose a Palermo e porgi 8 €, coi soldi che avanzano ti fanno anche la convenzione dal gastroenterologo, ma siamo a Milano, c’è poco da questionare.
Ora m’attende una digestione ai confini del lisergico, ma questa è un’altra storia.
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