I 10 peggiori luoghi comuni sulla pizza

I 10 peggiori luoghi comuni sulla pizza
Speciale

Quando bazzichi per qualche tempo nel mondo della pizza hai l’opportunità di fare quattro chiacchiere con appassionati, esperti del settore, consulenti, pizzaioli, fornai, drogati, pizzachef e qualsivoglia termine vi venga in mente per classificare un nerd di categoria.
 
Non sempre è un bene.
Anzi, mi correggo, quasi mai lo è.
L’ondata di dilagante disinformazione unita a moda e marketing ha generato una schiera di “esperti” che millanta assunzioni infondate e genera il panico su tematiche ridicole, portando consumatore e professionista a livelli di conoscenza infimi.
 
Uno degli scopi che mi sono prefissato da qualche tempo è di sciogliere i luoghi comuni peggiori sulla pizza, e fidatevi che ce ne sono.
Vediamo insieme la Top 10, per usare un termine da youtuber generico.
 
  1. La farina 00 è il demonio, usate l’integrale che fa bene. Si parte con il botto, come è giusto che sia; la povera farina 00 viene demonizzata e accusata di aver creato epidemie e pesti, tutto in favore di un’integrale che spesso e volentieri è semplicemente ricostruita, ovvero risulta essere una bianca con aggiunta di crusca tostata, che perde così qualsiasi capacità di assorbire liquidi.
    Facciamo un breve excursus tecnico: per il solo grano tenero la farina viene classificata in base alla percentuale di abburattamento, ovvero l’estrazione della crusca e del cruschello della farina per mezzo del buratto, un particolare setaccio; al tasso di abburattamento corrisponde la resa di macinazione, ovvero la quantità di farina ottenuta dalla macinazione di una determinata quantità di grano. Distinguiamo quindi tra farine bianche (00 e 0, rispettivamente con tasso di abburattamento del 50 e del 72%), semi-integrali (tipo 1 e 2, 80 e 85%) e integrali (non viene setacciata, e ha quindi un tasso di abburattamento del 100%).
    A prescindere dalla capacità del consumatore medio di fare la spesa in modo sensato (su cui ci sarebbe da aprire un capitolo a parte), il fulcro dell’attenzione deve essere il risultato, non la raffinazione della materia prima, ottenuta tramite la cosiddetta macinazione a cilindri; quest’ultima si rende infatti fondamentale per tutti quei prodotti che necessitino di determinate caratteristiche, come l’estensibilità nel caso della napoletana, grazie a prodotti ricchi di amido, soffici ed equilibrati nel sapore. Al contrario nelle VERE farine semi-integrali e integrali sono presenti maggiori quantità di fibre, vitamine, proteine, grassi ed enzimi, contenute nella parte esterna del chicco e nel germe di grano, che aumentano sì il sapore del prodotto finito ma ne appesantiscono anche la struttura e ne rendono più difficoltoso l’utilizzo.
    Fate piazza pulita dei pregiudizi, affidatevi a mulini seri e diversificate in base a ciò che intendete realizzare: farine bianche per la pizza al piatto, napoletana o romana che sia (dalla sezione minima e coperta da ingredienti, che rendono inutile l’apporto di sapore aggiuntivo e che richiedono estensibilità in stesura), semi-integrali o integrali per pizze in teglia, alla pala e per il pane (dalla sezione più importante o spesso bianche, dove il sapore aggiuntivo dà importanza all’impasto).
    Ricordatevi infine che un abuso di prodotti integrali ostacola l’assorbimento di alcune sostanze utili al vostro organismo, come i sali minerali.
    Il trucco è una dieta bilanciata, non il capro espiatorio del caso.
  2. Il lievito di birra rende la pizza indigesta, meglio usare il lievito madre che è più naturale. Concedetemi un anticipo di un paio di punti: a determinare la digeribilità di un panificato non è l’agente lievitante utilizzato, bensì l’equilibrio tra maturazione e lievitazione e una cottura condotta con criterio. Detto questo, leggo spesso di fenomeni che accusano il lievito di birra di essere responsabile della sete notturna in quanto permette di avere un prodotto in un paio d’ore, contro i tempi più lunghi del lievito madre.
    Ditemi dove sta scritto che dovete necessariamente lanciare un panetto di lievito intero nella ciotola.
    Chiariamo anzitutto che anche il lievito di birra è un prodotto naturale, ottenuto grazie ai residui di fermentazione della birra, e non è nient’altro che una colonia concentrata di organismi unicellulari della specie Saccharomyces cerevisiae; è un agente attivo, che consente di attivare le reazioni necessarie alla lievitazione in tempi brevi e in maniera certa e uniforme. Calibrando correttamente i tempi con le piccole dosi di lievito di birra (compresso o secco che sia), si ottengono panificati straordinari, leggeri e perfettamente digeribili.
    Il lievito madre al contrario è una massa contenente una microflora autoctona in cui predominano le colture di batteri lattici oltre ai lieviti; entra in gioco quando sono necessari importanti sviluppi nella struttura del prodotto finito (come nel pane o nei grandi lievitati), oltre a sapore e conservabilità (grazie ai batteri lattici).
    Capirete tuttavia che tali caratteristiche sono abbastanza inutili in una pizza, dalla struttura bassa, coperta dagli ingredienti e che vi pappate seduta stante.
    Al solito, usate il procedimento corretto in accordo con ciò che volete realizzare, senza farvi tormentare dai pregiudizi.
  3. Il forno a legna è fondamentale per una buona pizza, perché gli dà sapore in più. Per i semplici principi della termodinamica, a rendere possibile la cottura perfetta dei vostri prodotti finiti non è il combustibile ma la temperatura raggiunta e soprattutto la sua trasmissione (per conduzioneconvezione e irraggiamento). Ad oggi, livelli astronomici come i 400-500 °C necessari per cuocere una pizza napoletana tra i 60 e i 90 secondi sono raggiungibili anche grazie a forni a gas ed elettrici, dalla gestione più comoda, immediata e soprattutto costante.
    Per quanto romantico possa essere un forno a legna, toglietevi dalla testa che sia un benefit irrinunciabile per il vostro panificato, e soprattutto fidatevi di un fissato di American Barbecue: i 60 secondi necessari a cuocere una napoletana non sono neanche lontanamente sufficienti a permettere al semilavorato di catturare gli odori del fumo.
    Anzi, se così fosse, meglio allarmarsi, in quanto potrebbe essere sintomo di legna umida, sporca e non stagionata, responsabile quindi della generazione di fumo nocivo.
  4. Il forno di casa arriva solo a 250 °C ed è elettrico, meglio cuocere nei dispositivi da barbecue. Qui tocchiamo un tasto dolente. Ancora, le componenti fondamentali per una corretta cottura sono sì la temperatura raggiunta ma soprattutto la sua trasmissione.
    Per un’ottima teglia, il prodotto migliore ottenibile nel contesto domestico, il calore deve essere trasmesso per conduzioneconvezione e irraggiamento: la prima consente di cuocere la base della pizza, la seconda contribuisce allo sviluppo della pasta e la terza influisce sulla doratura superficiale. Nei dispositivi per barbecue potete attingere alle prime due grazie all’ausilio di una pietra refrattaria e della camera di cottura, ma manca una vera e propria componente di irraggiamento a causa dei materiali con cui è costruito e della necessità di aprire il coperchio per gestire la vostra pizza.
    Nel vostro forno di casa, al contrario, la resistenza superiore assolve egregiamente a tale compito; abituatevi quindi a considerare la cottura in un kettle come un compromesso, non come il modo più semplice di fuggire dai limiti del povero e sottovalutato forno a incasso domestico.
  5. La mia pizza ha 72 ore di lievitazione. Mi dispiace, ma non è possibile; la tua pizza casomai ha 72 ore di maturazione, un concetto troppo spesso dimenticato e in realtà importantissimo per le dinamiche di riposo di un impasto.
    Vediamo insieme le differenze: la maturazione consiste in un insieme di processi microbiologici durante i quali gli enzimi contenuti nella massa scompongono gli zuccheri complessi in strutture più semplici, attuando di fatto una vera e propria “digestione”.
    La lievitazione è solo uno di quei processi, l’unico visibile ad occhio nudo, ed è il risultato dell’azione dei lieviti che, nutrendosi degli zuccheri della farina, generano anidride carbonica che fa gonfiare l’impasto; è anche l’unica ad essere dipendente dalla temperatura, in quanto i lieviti lavorano più velocemente a temperature comprese tra i 20 e i 30 °C, mentre rallentano la loro azione fino a quasi fermarla a 4 °C, e muoiono oltre i 60 °C.
    La celebre frase “mi è lievitata in pancia è quindi fondamentalmente errata, in quanto i lieviti cessano di esistere in forno; ciò che accade invece è che tutto il lavoro eseguito durante la maturazione potrebbe non doverlo svolgere il nostro organismo se è stata ben condotta.
    Celle o frigoriferi casalinghi sono quindi validi aiuti per bloccare la lievitazione e impedire quindi il collasso del prodotto e la generazione di sostanze tossiche; la maturazione invece prosegue inalterata, nonostante le basse temperature.
    “Ma quindi posso tenerlo in frigorifero quanto mi pare?” 
    In realtà no, in base alla forza della farina (e quindi al quantitativo di glutine presente) un impasto risponderà meglio o peggio a determinate ore di maturazione; eccedere significherebbe esaurire gli zuccheri necessari sia per l’azione dei lieviti che per la reazione di maillard, ottenendo un prodotto che viene definito scarico: saporito e friabile ma basso, pieno e dalla crosta poco colorata.
  6. Perché beviamo di notte dopo aver mangiato una pizza? Perché il lavoro di maturazione sopra riportato non è stato condotto a pieno o con criterio, e prosegue quindi nell’apparato digerente del nostro stomaco, dove i famigerati enzimi continuano a richiedere acqua per l’attivazione e per svolgere la propria funzione di scomposizione di zuccheri complessi in zuccheri semplici, in poche parole, per digerirli.
  7. La focaccia è quella bianca, la pizza è quella condita con il pomodoro. Eh no ragazzi, non sta in piedi come ragionamento! Mi dovreste quindi spiegare la differenza tra la celebre pizza bianca romana e una focaccia, perché secondo la vostra argomentazione si tratterebbe di semplici sinonimi.
    Vediamolo insieme: è detta pizza un prodotto da forno lievitato steso, condito e cotto nei minuti successivi, un procedimento che consente di ottenere una mollica alveolata più o meno croccante, scioglievole e piena d’aria; al contrario, la focaccia subisce, dopo la stesura, un’ulteriore lievitazione in teglia, che permette di ricavare dopo la cottura una mollica più piena, una struttura più alta e soffice e nell’insieme più morbida.
    Tutto chiaro?
    Potreste benissimo avere, nella fattispecie, una pizza bianca e una focaccia margherita, dipende tutto da come impostate le ultime fasi di lievitazione.
  8. Per condire la pizza serve la passata di pomodoro. Niente di più sbagliato, soprattutto se puntate a utilizzare l’amico rossiccio come un VERO ingrediente, e non come un topping buttato a casaccio. La passata di pomodoro, oltre a essere spesso costituita da scarti di lavorazione, è un prodotto cotto, denso e concentrato, che si riduce ulteriormente in cottura lasciandovi poco o nulla, soprattutto in quanto a umidità.
    Utilizzate invece un buon pelato, magari un San Marzano spaccato a mano, per sentire tutto il profumo del pomodoro e per usufruire della sua preziosa freschezza ed umidità.
  9. La pizza napoletana è quella tonda e pesante. E perché? Perché tradizionalmente viene realizzata con panetti da 250-280g, contro i 180-200 della pizza romana o all’italiana? Come abbiamo visto, la pizza è pesante se la maturazione non è stata condotta nel migliore dei modi, e vi assicuro che se consegnate acqua e farina a chi sa il fatto suo vi mangerete non una, ma due napoletane intere, senza fatica alcuna.
  10. Ieri sera ho fatto la pizza napoletana nel forno di casa. Ecco, l’ultimo, grande errore. Spesso e volentieri si definisce napoletana la pizza tonda, dimenticandosi che la versione partenopea condivide la forma anche con la sorella romana e con la via di mezzo diffusa nel nord, denominata all’italiana.
    Per pizza napoletana intendiamo un prodotto da forno lievitato, steso a disco sottile e cotto a temperature che vanno dai 400 ai 500 °C per un tempo che oscilla tra i 60 e i 90 secondi. Il risultato è una pasta molto estensibile in stesura, morbida ed elastica una volta cotta, tale da poter essere ripiegata su se stessa a portafoglio o libretto, dalla croccantezza assente o appena percettibile, con il bordo rialzato (il famoso cornicione) e la parte centrale sottile e coperta dai condimenti, e che presenta la distintiva maculatura tipica di una cottura così rapida ed aggressiva.
    Ora ditemi, se il vostro forno arriva al massimo a 250 °C, che napoletana volete che sia?
    Non sto dicendo che non sia buona, semplicemente è un altro tipo di pizza.
    Stop.
 
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